LA CORTE DI CASSAZIONE
   Ha   pronunciato   la   seguente  ordinanza  sul  ricorso  proposto
 dall'Istituto  nazionale  assistenza   dipendenti   enti   locali   -
 I.N.A.D.E.L.,  in  persona  del  legale  rappresentante  pro-tempore,
 elettivamente domiciliato in Roma, via Livorno n. 58,  presso  l'avv.
 Luciano  Bason, che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale
 a  margine  del  ricorso,   ricorrente;   contro   Ingemi   Giuseppa,
 elettivamente  domiciliata in Roma, presso la cancelleria della Corte
 suprema di cassazione, rappresentata  e  difesa  dall'avv.  Francesco
 Mobilia,   giusta  procura  speciale  a  margine  del  controricorso,
 controricorrente, per l'annullamento della sentenza del tribunale  di
 Messina  in  data  15  aprile 1988, depositata il 5 dicembre 1988, n.
 178/1988, r.g.  759/1987;
    Udita la relazione svolta nella pubblica udienza  del  27  ottobre
 1992 dal cons. rel. dott. Caianiello;
    Sentito l'avv. F. Mobilia;
    Udito  il  p.m.  nella  persona del sost. proc. gen. dott. Antonio
 Leo, che  ha  concluso  per  la  rimessione  degli  atti  alla  Corte
 costituzionale;
                           RITENUTO IN FATTO
    Con  sentenza  depositata  il  5  dicembre  1988,  il tribunale di
 Messina, pronunciando sull'appello proposto  dall'Inadel  avverso  la
 sentenza  in  data 13 giugno 1987 del pretore di Messina, giudice del
 lavoro,  che,  in  accoglimento  della  domanda  proposta  da  Ingemi
 Giuseppina,  dipendente da ente locale collocata a riposo il 1› marzo
 1985, aveva condannato l'istituto a corrispondere a  quest'ultima,  a
 titolo  di riliquidazione dell'indennita' premio di servizio (I.P.S.)
 la maggiore somma di L. 13.112.748, con il risarcimento del danno per
 il ritardato pagamento secondo gli indici di  rivalutazione  Istat  e
 con   gli  interessi  legali  a  decorrere  dalla  data  della  prima
 liquidazione dell'indennita', confermava la  sentenza,  relativamente
 ai riconosciuti oneri accessori, che ricorrevano nella specie tutti i
 presupposti   per  l'applicabilita'  dell'art.  1224  cod.  civ.,  ed
 escludendo che potesse  essere  invocato  al  riguardo  dall'istituto
 l'art. 23, quarto comma, del d.l. 31 agosto 1987, n. 359, convertito
 con  legge  n.  440  del  1987,  secondo  cui  le  somme  dovute  per
 riliquidazione  dell'I.P.S.  non  danno  luogo  a  corresponsione  di
 interessi  e  rivalutazione  monetaria, perche' tale disposizione non
 aveva effetto retroattivo.
    Avverso tale sentenza l'Inadel proponeva ricorso  per  cassazione,
 deducendo  vizi  di violazione delle anzidette norme e dell'art. 429,
 terzo comma, del c.p.c.
    Con ordinanza 19 settembre 1991, questa Corte sollevava  questione
 di  legittimita' costituzionale dell'art. 23, quarto comma, del d.l.
 31 agosto 1987, n. 359, convertito nella legge 29  ottobre  1987,  n.
 440,  nella  parte  in  cui  dispone  che le somme dovute a titolo di
 riliquidazione dell'indennita' premio di  servizio  non  danno  luogo
 alla  corresponsione  della  rivalutazione  monetaria, in riferimento
 agli artt. 3 e 38 Cost. e in  relazione  alla  sentenza  della  Corte
 costituzionale n. 156 del 1991.
    Con  ordinanza  n.  218,  resa  il 4 maggio 1992 e depositata l'11
 maggio 1992, la Corte  costituzionale  ha  ordinato  la  restituzione
 degli  atti  a  questa Corte di cassazione, al fine del riesame della
 rilevanza della questione dopo l'emanazione (successiva all'ordinanza
 di rimessione) della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (disposizioni  in
 materia  di  finanza  pubblica),  che  all'art.  16,  sesto comma, ha
 dettato una nuova disciplina in materia di rivalutazione dei  crediti
 previdenziali, disponendo che "l'importo dovuto a titolo di interessi
 e portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro
 del  maggior  danno  subito  dal  titolare  della  prestazione per la
 diminuzione del valore del credito".
                          OSSERVA IN DIRITTO
    La questione di costituzionalita' sollevata da questa Corte con la
 precedente ordinanza del 19 settembre  1991  conserva  tutta  la  sua
 rilevanza  pregiudiziale nel presente giudizio, anche a seguito della
 intervenuta nuova disciplina in materia di rivalutazione dei  crediti
 previdenziali,  di  cui  all'art.  16,  sesto  comma,  della legge 30
 dicembre 1991, n. 412.
    Siffatta sopravvenuta nuova  disciplina,  non  appare  applicabile
 ratione  temporis,  ex  art.  11  preleggi,  al  caso  di  specie. La
 disposizione in esame, infatti, stabilendo testualmente che "gli enti
 gestori  di  forme  di  previdenza   obbligatoria   sono   tenuti   a
 corrispondere  gli  interessi  legali,  sulle  prestazioni  dovute, a
 decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per  l'adozione
 del  provvedimento sulla domanda", e di poi precisando che "l'importo
 dovuto a titolo di interessi e' portato  in  detrazione  sulle  somme
 eventualmente  spettanti  a  ristoro  del  maggior  danno subi'to dal
 titolare della prestazione per la  diminuzione  del  valore  del  suo
 credito",  ha certamente innovato rispetto all'art. 429, terzo comma,
 del c.p.c. - applicabile anche ai crediti  previdenziali,  a  seguito
 della  sentenza  della  Corte  costituzionale n. 156/1991 - postoche'
 essa, lungi dal dettare un nuovo modo di svolgimento di  un  rapporto
 di  durata,  e da essere percio' immediatamente efficace sui rapporti
 pendenti, ha invece determinato un nuovo contenuto del  credito,  con
 conseguente  efficacia  soltanto  sui  fatti  costitutivi del credito
 stesso successivi alla sua entrata in vigore. In  tali  sensi  e'  la
 giurisprudenza  di questa Corte, espressa nelle cause Inps c/ Spatola
 (ud. 21 gennaio 1992). Inps c/ Di  Rocco  (ud.  24  gennaio  1992)  e
 Inadel c/ Pedemonte e altri (ud. 20 ottobre 1992).
    Attesa   dunque   la  irretroattivita'  della  sopravvenuta  nuova
 disciplina in materia di  rivalutazione  dei  crediti  previdenziali,
 appare   evidente   il  permanere  della  rilevanza,  in  termini  di
 pregiudizialita', nel presente giudizio, della sollevata questione di
 costituzionalita' del citato quarto comma dell'art. 23 del  d.l.  n.
 359/1987,  nel  testo  risultante  dalla  dichiarazione  di  parziale
 illegittimita' costituzionale,  di  cui  alla  sentenza  della  Corte
 costituzionale  n.  1060  del  6  dicembre  1988  (che  ha,  appunto,
 dichiarato l'illegittimita' di tale  disposizione  solo  nella  parte
 statuente    l'esclusione   degli   interessi),   posta   invece   la
 retroattivita' di tale disposizione, la  cui  eventuale  applicazione
 nel  caso  di  specie comporterebbe comunque l'esclusione del diritto
 della Ingemi alla rivalutazione monetaria, riconosciuta  dal  giudice
 di merito, con la conseguente cassazione dell'impugnata sentenza.
    Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione,  con
 riferimento   sia   all'art.   3   della   Costituzione   (posta   la
 discriminazione  del credito de quo, relativamente alla rivalutazione
 monetaria,  rispetto  ad  ogni  altro  credito  previdenziale),   sia
 all'art.   38   della   Costituzione  (atteso  l'inadeguato  modo  di
 provvedere alle comuni esigenze di vita del  lavoratore  cessato  dal
 servizio),  e  con  specifico riferimento al principio di sostanziale
 equiparazione dei crediti previdenziali ai  crediti  di  lavoro,  con
 conseguente   applicazione   anche   ai   primi  del  criterio  della
 rivalutazione automatica sancito  dall'art.  429,  terzo  comma,  del
 c.p.c., di cui alla citata sentenza della Corte costituzionale n. 156
 del  12  aprile  1991,  valgono  le considerazioni gia' svolte con la
 prima ordinanza di rimessione, che appare  opportuno  riprodurre  per
 esigenze di completezza e necessarie ulteriori precisazioni.
    E'  utile  all'uopo  osservare  che,  la  sopra  anche  richiamata
 sentenza della Corte costituzionale n.  1060/1988,  ebbe  a  ritenere
 legittima (contrariamente a quanto invece, come si e' visto, ritenuto
 per  gli  interessi)  l'esclusione  della rivalutazione monetaria, in
 base a rilievi che non possono considerarsi ormai  piu'  giustificati
 alla luce della soluzione adottata con la sentenza n. 156/1991.
    Questi  erano  i  rilievi:  a)  per  i  crediti  previdenziali,  a
 differenza di quelli di lavoro privato, non trova applicazione l'art.
 429 del c.p.c., bensi' l'art. 1224, secondo comma, cod. civ., in base
 al quale la rivalutazione non compete automaticamente ma occorrono la
 domanda di  pagamento  del  maggior  danno  e  la  dimostrazione  del
 pregiudizio  patrimoniale  sofferto;  b)  la  tematica  relativa agli
 interessi e' autonoma  rispetto  alla  rivalutazione,  in  quanto  la
 decorrenza dei termini di pagamento determina automaticamente la mora
 dell'Istituto, giacche' "i tempi del meccanismo di liquidazione della
 prestazione  sono prefissati per legge decorrenti dalla richiesta del
 dipendente, pur in assenza dell'emissione del mandato di  pagamento";
 c)  la  previsione  normativa  della  esclusione  della rivalutazione
 monetaria  corrisponde  ad  una   valutazione   non   arbitraria,   e
 sufficientemente razionale, del legislatore, dettata dalla necessita'
 di sanare la situazione finanziaria venutasi a creare a seguito della
 sentenza   della   stessa  Corte  costituzionale  n.  236/1986,  che,
 risolvendo   dubbi   interpretativi,   aveva   sancito   l'inclusione
 nell'I.P.S.  dell'indennita'  integrativa  speciale comprensiva degli
 incrementi di contingenza; d) il citato art. 23 e' norma  eccezionale
 di  durata  temporanea (limitata alla contribuzione previdenziale per
 il quadriennio 1982-1986) e regola situazioni soggettive  disomogenee
 rispetto  agli ordinari crediti previdenziali; e) la non eccessivita'
 della decurtazione dovuta alla mancata rivalutazione non incide sulle
 condizioni poste dagli artt. 36 e 38 della Costituzione.
    Il nuovo orientamento espresso dalla piu' recente  sentenza  della
 Corte   costituzionale   n.   156/1991,   modificando   un  indirizzo
 giurisdizionale consolidato ed affermando l'assimilazione dei crediti
 previdenziali ai crediti retributivi,  ai  fini  della  rivalutazione
 automatica  prevista  dall'art.  429,  terzo  comma, c.p.c. (e questa
 costituendo una modalita' di attuazione dell'art.  36,  primo  comma,
 della  Costituzione,  in quanto dettata come parametro delle esigenze
 di vita del lavoratore), dovrebbe di per se'  rendere  ingiustificati
 ed ormai inconferenti i rilievi in forza dei quali, con la precedente
 sentenza  n.  1060/1988, la Corte costituzionale ebbe ad affermare la
 legittimita' della esclusione, operata dal  citato  art.  23,  quarto
 comma  del  d.l.  n.  359/1987,  della  rivalutazione  monetaria dal
 computo del credito della  riliquidazione  dell'I.P.S.  spettante  al
 lavoratore cessato dal servizio.
    E'  infatti  evidente  che,  una volta affermata e riconosciuta la
 perfetta equiparazione di tutti i crediti  previdenziali  ai  crediti
 retributivi, e cio' ai fini della prevista applicazione del principio
 della  rivalutazione automatica di cui all'art. 429, terzo comma, del
 c.p.c., che e' espressione di una modalita' di  attuazione  dell'art.
 36,  primo  comma, della Costituzione, la mancata estensione anche al
 credito de quo  di  siffatto  principio  comporta,  non  soltanto  la
 violazione  dell'art.  3  della  Costituzione, ma anche la violazione
 dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione che, sotto  l'aspetto
 funzionale (di surroga o integrazione di un reddito di lavoro cessato
 o ridotto), appunto, avvicina le prestazioni previdenziali ai crediti
 di   lavoro.  E'  chiaro,  infatti,  che,  il  riconoscere  legittima
 l'esclusione   della   rivalutazione   monetaria   per   i    crediti
 previdenziali  di  cui  all'art.  23  cit.,  imporrebbe  l'esclusione
 proprio del criterio automatico di rivalutazione e priverebbe, cosi',
 di una  significativa  porzione  le  spettanze  accreditate  all'  ex
 dipendente  per  effetto di meccanismi di liquidazione prefissati per
 legge (applicazione dell'indice Istat  di  rivalutazione  monetaria),
 per i quali non e' necessario, analogamente a quanto previsto per gli
 interessi  legali, alcun accertamento della responsabilita' dell'Ente
 debitore, ne' prova del pregiudizio patrimoniale subito dal creditore
 per il ritardato  adempimento;  ed  ove,  peraltro,  per  entrambi  i
 benefici,  quanto  al credito in questione, la decorrenza e' fissata,
 in applicazione dell'art. 7 della legge n. 533 del 1973, allo scadere
 del centoventesimo giorno dalla maturazione del diritto,  coincidente
 con il collocamento a riposo dell'interessato.
    Non decisive, peraltro, sotto il profilo prettamente giuridico, si
 rivelano  le  ragioni di carattere "pragmatico", legate all'esiguita'
 della decurtazione - neppure poi sostenibili alla  luce  dell'effetto
 cumulativo  della  rivalutazione automatica con gli interessi legali,
 ammesso dall'art. 429, terzo comma, del c.p.c., e posta, come  si  e'
 visto  all'inizio, l'inapplicabilita' al caso di specie del diverso e
 piu' riduttivo criterio dettato  dall'art.  16,  sesto  comma,  della
 sopravvenuta   legge   n.   412/1991,   rispetto   ai   soli  crediti
 previdenziali, la cui eventuale inconciliabilita'  con  il  principio
 previsto  dall'art.  429  non  presenta  pertanto, comunque motivo di
 interesse e rilevanza nel presente giudizio - e  alla  necessita'  di
 non aggravare ulteriormente la cassa dell'Ente.
    Allo stesso modo, d'altro canto, l'inderogabile esigenza di difesa
 del  potere  d'acquisto  della  prestazione previdenziale, anche essa
 necessaria per soddisfare,  nella  ormai  riconosciuta  assimilazione
 alla  prestazione  retributiva,  gli  ordinari bisogni della vita, ed
 attuata mediante il meccanismo della  rivalutazione  automatica,  non
 puo'  essere  elusa,  attesa  la  sua rilevanza costituzionale, dalla
 eccezionalita' della disposizione di cui al citato art. 23,  siffatta
 eccezionalita'   non   rappresentandosi   come   ragionevole   motivo
 giustificativo di un trattamento  per  i  crediti  di  riliquidazione
 dell'I.P.S.  meno  favorevole  rispetto a quello riservato agli altri
 crediti previdenziali (almeno rispetto a quelli maturati nello stesso
 periodo di tempo di riferimento e, come tali, neppure ricadenti nella
 piu' restrittiva disciplina introdotta  dal  citato  art.  16,  sesto
 comma,  della  legge  n.  412/1991) ed essendo comuni agli uni e agli
 altri le ragioni di salvaguardia del potere  d'acquisto  in  funzione
 dei bisogni anzidetti.